Immergersi in un’esperienza del genere, per quanto mi riguarda, ha significato anche un’esigenza per “conoscere” se stessi, mettere in moto risorse inespresse e quindi crescere, unitamente com’è logico a dare un appoggio in una situazione di difficoltà e disagio culturale di una famiglia in cui è il minore più indifeso come al solito a farne le spese.
Da diversi anni sono interessata al sociale, seguo stage e convegni di psico-sociologia. Sono single, quindi vivo da sola, ho 44 anni, un lavoro autonomo nel campo grafico-giornalistico e in qualche modo posso organizzarmi le giornate, per quanto piene tra lavoro e relazioni sociali e senza orari canonici. Mi è sembrato quindi ad hoc la forma dell’Appoggio Familiare per potermi ritagliare delle ore della settimana per un percorso sì con un progetto individuato con i Servizi Sociali, ma anche e soprattutto per accompagnare la bambina nella crescita senza fini troppo rigidi, affrontando dinamiche e situazioni che man mano si presentano e non sempre ponderabili a priori.
Dal gennaio 2005 seguo infatti una ragazzina che attualmente ha 10 anni, vive una situazione familiare di disagio sociale e culturale che non le permette di essere seguita adeguatamente nelle normali fasi di crescita e delle sue esigenze. Le conseguenti tensioni familiari si ripercuotono in vario modo nei suoi aspetti caratteriali e quindi anche nel rendimento scolastico, per cui il mio ruolo iniziale è stato quello di seguirla nei compiti in collaborazione in qualche modo con le insegnanti. Poi logicamente stando insieme si discute, si frequentano attività come i laboratori di ludoteca, oppure affrontiamo piccoli e grandi problemi della crescita di un bambino o guardiamo la televisione e ne parliamo.
Certo, momenti di sconforto ci sono, perché poi tra il dire e il fare... Ma credo che l’importante sia non pretendere di cambiare il non-cambiabile e non buttarsi a capofitto troppo emotivamente rischiando di annullare le proprie energie per dare tutto a tutti i costi, magari per cercare di riempire dei vuoti di vario tipo: credo non faccia bene né al bambino né a chi offre aiuto. E non vivo l’esperienza con la necessità di chiedermi del “poi”; l’affido (e quindi anche l’appoggio familiare, ma anche la vita stessa!) è un’esperienza a termine, un rapporto può continuare sotto varie forme o interrompersi per vari situazioni della vita, ma l’arricchimento di un percorso rimane e lo “utilizzerai” e si spera lo utilizzerà anche la bambina. E soprattutto, al di là del tempo in cui stiamo insieme, lei sa comunque che con una telefonata può raggiungermi in ogni momento, sia adesso sia quando sarà più grande: un punto fermo di cui in futuro potrà non aver più bisogno fattivamente, ma che magari la farà star bene solo sapere che comunque c’è.
Ecco, l’unica cosa che mi piacerebbe poter dire un giorno è di aver contribuito anche minimamente a fornirle strumenti per saper affrontare autonomamente le situazioni della vita che per forza di cose potranno comprendere gioie e dolori, che sappia star bene con gli altri ma anche da sola ascoltando e rispettando prima di tutto se stessa e i propri bisogni, senza dipendenze di alcun genere, mantenendo la curiosità di conoscenza e una propria coscienza critica delle situazioni senza seguire la massa; cosa che invece al giorno d’oggi sembra essere diventato inconcepibile, così come il concetto di separazione (naturale o inaspettato) e dell’esperienza del dolore in genere, inevitabile e mai valutato come risorsa ma solo come spauracchio da scacciare e da cui preservarsi ad ogni costo.
Affidataria del servizio appoggio familiare